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‘Vita intellettuale e affettiva di Benedetto Croce’ sul Corriere del Mezzogiorno

L’Estetica di Croce è utile più oggi di ieri

l’estetica di Croce è più utile oggi di ieri, ecco come sviluppa Giancarlo Desiderio la sua opinione. L’estetica di Croce è più utile oggi di ieri perché l’ottica crociana è moderna, concettualmente nella sua modernità ricopre gli spazi temporali senza abbatterli mai

  • Corriere del Mezzogiorno (Campania)
  • 29 Jun 2022
  • Di Marco Demarco
Vita intellettuale e affettiva di Benedetto Croce Aras Edizioni Corriere del mezzogiorno

L’Estetica di Croce. Più utile oggi di ieri. Si parla di estetica, anzi di Estetica, con la maiuscola, e a un certo punto Giancristiano Desiderio scrive:

«La critica di Croce ha quasi più importanza oggi che ieri».

Davvero? Non è un po’ azzardato, anche per un crociato del crocianesimo quale Desiderio è, spingersi fin qui, sfidare l’ imprevedibilità delle nuove tendenze e negare quanto arduo sia oggi riportare tutto, o quasi, nell’ambito di una teoria generale?

Ricavata dal testo, la risposta è questa: «Dopo la fine infruttuosa della critica stilistica, del formalismo, della linguistica e dello strutturalismo, (quello di Croce) è né più né meno che il lavoro che i critici hanno ripreso in mano per capire cosa è arte, cosa è poesia, cosa è letteratura e in che modo, su quali basi inevitabilmente di una filosofia estetica, si può esercitare il giudizio critico».

L’autore, dunque, rinuncerebbe volentieri anche al «quasi» prudenziale inserito nella frase di avvio del ragionamento

se non fosse che il prossimo 20 novembre saranno settant’anni dalla morte del filosofo. Il che a qualche rischio espone, visto che si parla di un tempo rilevante e tra l’altro fortemente accelerato, in cui molte cose sono cambiate e molte altre stanno occupando prepotentemente la scena, a partire dagli Nft, i «non fungible token», e dalla digitalizzazione «che derealizza e disincarna il mondo», per dirla con ByungChul Han.

«Tutto cangia nella realtà, salvo l’idea stessa della realtà».

Perciò non può che colpire avere chiari questi approdi e leggere di quando, rivolgendosi a giovani allievi, e parlando di poesia, Croce, a un certo punto dice che «tutto cangia nella realtà, salvo l’idea stessa della realtà». Magari, verrebbe da pensare, si potesse ancora essere certi di questo. In ogni caso è da qui, dall’assunto assai impegnativo circa la «contemporaneità» dell’estetica crociana che prende le mosse l’ultimo lavoro di Desiderio, la terza parte della «Vita intellettuale e affettiva di Benedetto Croce», edito da Aras Edizioni.

Il tono con cui è scritto il libro è esplicitamente partecipato a tratti addirittura nostalgico

(«chi scrive queste righe possiede la seconda edizione dell’Estetica, quella che reca in copertina la data 1904. Color celestino, ormai scolorita in un grigio ghiaccio…) ma questo nulla toglie , ancora una volta, al rigore delle ricostruzioni storiche e di quelle teoriche.

Per Croce, ricorda Desiderio, l’arte è «intuizione irriflessa dell’essere» e non è filosofia che, invece, è «pensamento logico».

L’opera è sempre individuale, unica, e perciò irriducibile in generi, schemi e forme pre-codificate; e la critica deve badare all’essenza, non agli effetti sociali, né tantomeno agli «scartafacci», alle varianti e agli errori degli autori.

Potevano, queste tesi, non scuotere nel profondo la riflessione pubblica?

E poteva, il carattere di chi le diffondeva, non alimentare polemiche dirette e incandescenti? Ecco, allora, Croce che definisce Kierkegaard, «filosoficamente spaesato», perché confonde l’estetica con la comodità della vita.

O, in una lettera indirizzata a Luigi Russo, che diventerà poi uno dei maggiori critici letterari italiani educatisi proprio con i testi di Croce.

il nome di Giovanni Gentile, una volta amico e apprezzato interlocutore, indicato come uno che non aveva mai capito nulla di filosofia, e che anzi non sapeva neanche cosa fosse.

Ma ecco anche un Arturo Labriola che pochi giorni prima di morire rimprovera Croce per i suoi mai nascondere la suscettibilità dell’uomo o certe suoi significativi «adattamenti», come quando a chi gli disse di aver scritto un’estetica «fredda» rispose, in una successiva edizione, introducendo il concetto di intuizione «lirica».

C’è traccia di questo – ma forse è una traccia involontaria – anche in «Qui rido io» di Martone.

Nel film, a metà tra finzione e ricostruzione storica, Don Benedetto appare due volte: quando Scarpetta va a chiedergli una consulenza sulla linea difensiva da assumere nel processo per plagio intentato da D’Annunzio, e poi nel corso del processo stesso.

La prima volta, Croce suggerisce di lasciar correre, ovvero di ammettere di aver scritto un’opera infelice, perché il plagio è vietato, mentre «sbagliare una commedia non è reato».

Scarpetta avrebbe gradito una diversa valutazione della sua opera, ma pazienza: ringrazia e toglie il disturbo. Durante il processo, però, non segue il consiglio.

Anzi, addirittura parte all’attacco di D’Annunzio tra gli applausi del pubblico. Ed ecco la seconda apparizione di Croce.

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